Trust, azienda e partecipazioni in un’ottica di riforma del patto di famiglia

Published On: 24/09/2024Categories: blog
Stretta di mano tra padre e figlio

1. La Commissione Europea sul passaggio intergenerazionale dell’impresa

Durante gli anni novanta, la Commissione Europea si è preoccupata, in almeno due ufficiali occasioni, di sollecitare l’attenzione degli stati membri sul passaggio intergenerazionale dell’impresa.

Intendo riferirmi alla Raccomandazione 94/1069/CE del 7 dicembre 1994, e alla Comunicazione 98/C93/02.

Con la nota tecnica redazionale di questo tipo di documenti, nella prima parte della citata Raccomandazione, la Commissione ha osservato come: (i) gran parte dei fallimenti e delle liquidazioni anzitempo occorse alle piccole-medie imprese operanti sul mercato europeo siano dovuti a successioni mal gestite; e (ii) non tutti gli Stati membri offrano agli attori del mercato regole che governano la trasformazione degli enti in maniera efficiente, senza determinare  l’imposizione di costi in termini di scioglimento e ricostituzione dell’ente e dei rapporti di cui lo stesso è attore antecedentemente alla trasformazione.

Quindi, nella seconda parte della Raccomandazione la Commissione invita gli Stati membri a sensibilizzare l’imprenditore, creandogli incentivi a «preparare la successione nell’impresa finché è ancora in vita», anche rimuovendo quegli ostacoli che possono intralciare l’imprenditore nella pianificazione del passaggio intergenerazionale e che sono rappresentati da alcune inderogabili norme dettate dal diritto di famiglia e dal diritto successorio, come ad esempio il divieto di patti successori, vigente nell’Europa continentale.

In secondo luogo, anche al fine di facilitare la successione nella proprietà dell’impresa, la Commissione ha suggerito e prospettato agli Stati membri l’adozione di una legislazione che consentisse agili mutamenti delle forme con cui l’impresa è esercitata, garantendo la continuità dei rapporti esterni, senza che l’ente debba dissolversi e ricostituirsi ogniqualvolta i suoi partecipanti intendano optare per regole organizzative riconducibili ad un diverso modello legale.

Quindi, dopo aver constatato l’inerzia di molti Stati appartenenti ai sistemi di civil law, con la Comunicazione 98/C93/02, la Commissione ha consigliato loro di orientarsi come i sistemi di common law, nei quali l’uso del trust facilita la programmazione della successione dell’imprenditore.

2. Le risposte del sistema giuridico italiano.

Le risposte più o meno coscientemente fornite dal nostro sistema giuridico agli intereventi della Commissione debbono essere analizzate dal punto di vista del formante legale da una parte e quello del formante giurisprudenziale e dottrinale dall’altra.

Quanto al primo punto di vista, rilevano i patti di famiglia, i patti d’impresa e le nuove regole sulle trasformazioni eterogenee.

Con la legge 14 febbraio 2006, il Legislatore ha introdotto nel nostro sistema il patto di famiglia, contratto con cui l’imprenditore cede l’azienda o parte di essa e il titolare di partecipazioni ne provvede al trasferimento, anche soltanto di una parte. Il tutto, «compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa famigliare e nel rispetto delle diverse tipologie societarie».

L’aspetto successorio del contratto emerge all’articolo 768-quater del codice civile, secondo il quale: (a) devono prendere parte al patto anche il coniuge e tutti coloro che, se si aprisse la successione al momento della stipula, sarebbero legittimari; (b) l’assegnatario delle partecipazioni deve liquidare, secondo quanto la legge riserva ai legittimari ed eventualmente anche in natura, gli altri partecipanti al contratto, a meno che questi non vi rinuncino; (c) i beni assegnati agli altri partecipanti del contratto sono imputati alle rispettive quote di legittima, nonché (d) le transazioni effettuate in conformità con il patto non sono soggette a riduzione e collazione.

I patti d’impresa, invece, sono racchiusi nell’articolo 2355-bis del codice civile, il quale, frutto della riforma del diritto societario del 2003, prevede la possibilità di contemplare nello statuto di una società per azioni alcune clausole volte a limitare la circolazione delle azioni stesse.

Si possono così prevedere clausole di lock-up, che impediscono l’alienazione dei titoli nei cinque anni successivi alla loro inserzione, le clausole gradimento e le clausole di mero gradimento, le quali subordinano l’ingresso di nuovi soci a requisiti oggettivi ovvero alla mera discrezionalità di un organo sociale.

Infine, in tema di trasformazioni, la riforma del diritto societario ha abolito il principio dell’omogeneità causale, consentendo il mutamento della forma giuridica senza costringere i soggetti che ruotano attorno all’ente a provvedere allo scioglimento e ricostituzione degli stessi. In tal senso, oggi, un cambiamento delle regole di organizzazione non comporta alcun costo transattivo né per i soggetti partecipanti all’ente, in termini burocratici, né per terzi, ai quali è garantita la continuità dei rapporti instaurati con l’ente che intende trasformarsi.

Anche giurisprudenza e dottrina hanno in qualche modo concorso a fornire una risposta agli interventi della Commissione. Esse, infatti, incalzate dalle crescenti richieste di tutela avanzate dagli attori del mercato, sono giunte ad ammettere la validità dei trust interni, creati da disponenti italiani su beni siti in Italia e gestiti da trustees italiani in favore di beneficiari italiani.

Negli ultimi dieci anni, la prassi dei trusts interni, supportata dalle decisioni delle corti di merito, ha portato alla luce un crescente impiego dell’istituto di common law in relazione alla regolamentazione della successione nell’ impresa.

3. Le esigenze dell’imprenditore tra soluzioni civilistiche e trust.

A seconda della complessità della situazione economica e famigliare, l’imprenditore tenderà a dirigere le proprie scelte verso modelli che gli garantiscano la possibilità di:

a) separare l’interesse dal controllo delle partecipazioni, riassegnando quest’ultimo ad un terzo che mantenga i beni trasferitigli separati da quelli riferibili al proprio personale patrimonio;

b) dettare regole di organizzazione, cioè regole che disciplinino rapporti e responsabilità dei soggetti che ruotano attorno alle partecipazioni e, eventualmente, al suo restante patrimonio, una volta deceduto;

c) far uso di strumenti civilistici di tipo successorio, quali le clausole tipicamente inserite nei testamenti, anche in funzione sanzionatoria rispetto a determinati comportamenti degli eredi;

d) proteggere i beneficiari delle disposizioni patrimoniali, dai rispettivi creditori personali;

e) se del caso evitare, nella trasmissione della proprietà dell’impresa, una generazione (generation skipping) per riassegnare all’interno della seconda il controllo della società; e

f) dotare di una certa stabilità all’assetto di interessi prescelto, evitando, per quanto possibile, che questo possa essere messo in dubbio dalle azioni di alcuno dei legittimari.

L’offerta di modelli presentata dal nostro codice civile non è in grado di incrociare questo tipo di domanda.

Infatti, il patto di famiglia rappresenta, a conti fatti, una successione anticipata: l’imprenditore si spoglia di partecipazioni o azienda e ne trasferisce la proprietà ad un prescelto.

Ovviamente, questa caratteristica del patto ne impedisce in molti casi l’adozione, in quanto l’imprenditore potrebbe essere intenzionato a pianificare la successione, ma non ad abbandonare del tutto l’impresa finché in vita.

La conclusione del patto famiglia incontra inoltre altri due ostacoli in altrettante condizioni imperativamente richieste dal codice civile.

La prima consiste nella partecipazione di tutti coloro che sarebbero legittimari laddove, al momento della stipula, si aprisse la successione dell’imprenditore.

Tale condizione determina, non di rado, atteggiamenti opportunistici da parte degli esclusi alla successione nell’impresa, i quali potrebbero rifiutarsi di partecipare al patto, determinando l’impossibilità di concludere l’accordo.

La seconda condizione è invece rappresentata dalla necessaria liquidazione che il designato dall’imprenditore deve effettuare ai non assegnatari, corrispondendo loro un importo pari al valore dell’azienda, dopo avervi sottratto la propria quota di legittima calcolata sul medesimo valore. Simile obbligo, eludibile secondo parte della dottrina attraverso la liquidazione operata dall’imprenditore stesso, può implicare, qualora l’assegnatario, come non di rado accade, non abbia le possibilità economiche di liquidare i restanti legittimari, l’abbandono dell’idea di concludere un patto di questo tipo.

Il patto di famiglia, per giunta, non possiede quegli aspetti gestori di separazione della proprietà dal controllo, perché importa un trasferimento definitivo delle partecipazioni, e non contempla la possibilità di pervenire ad effetti sanzionatori del tipo di quelli che certe clausole testamentarie determinano.

Infine, il patto non consente operazioni di generation skipping, a meno che – circostanza piuttosto rara – il prescelto sia già pronto per succedere al comando dell’azienda.

Tuttavia, a fronte degli inconvenienti sottolineati, il patto, una volta concluso, garantisce la stabilità dell’assetto di interessi ivi contemplato, in quanto sottratto  a riduzione e collazione.

Anche i patti d’impresa, benché orientabili a fini successori, non paiono in grado di incontrare appieno le evidenziate esigenze dell’imprenditore.

Infatti, attraverso la tecnica del gradimento, si potrà determinare l’esclusione di uno o più soggetti dalla compagine sociale, senza poter riallocare le partecipazioni in futuro ad un designato, anche per opera di un terzo, a cui sia stato temporaneamente assegnato il controllo delle partecipazioni stesse.

Né tantomeno parrebbe potersi soddisfare con il medesimo strumento le altre esigenze sopra sottolineate.

Per contro, a conclusioni opposte si può pervenire analizzando il trust, il quale, grazie alla sua flessibilità è in grado di venire incontro a quasi tutte le aspettative dell’imprenditore.

4. Il trust come veicolo per il passaggio intergenerazionale dell’azienda.

Diversamente dai tradizionali modelli presenti nel nostro ordinamento il trust è in grado di soddisfare quasi tutte le esigenze dell’imprenditore.

Infatti, il trust utilizzato nell’ambito del passaggio intergenerazionale dell’azienda, contempla un trasferimento delle partecipazioni dall’imprenditore (disponente) ad un manager (trustee), che le amministra nell’interessi di beneficiari determinati o di una classe di beneficiari, mantenendole separate dai propri beni, senza che i suoi creditori personali possano in alcun modo avanzare pretese su di esse. Laddove previsto, la gestione potrà avvenire sotto la direzione e il monitoraggio di uno o più soggetti appositamente nominati (protector o guardiano).

In secondo luogo, grazie alla natura di default di quasi tutte le norme che presidiano il diritto dei trusts, il disponente è in grado di modellare obblighi, diritti e poteri degli attori dell’istituto sulla falsariga dei rapporti che si possono rinvenire in una società.

In particolare, i meccanismi organizzativi adottabili nel trust possono essere rinvenuti nel particolare assetto di governance che ricalca per funzioni e responsabilità il modello dualistico delle società per azioni, senza tuttavia che si realizzi quella inderogabile riallocazione di competenze  che funziona da filtro tra i soggetti nel cui interesse è condotta la gestione e coloro che hanno la responsabilità per l’amministrazione.

In tal senso, il disponente può riservarsi alcuni poteri nell’atto istitutivo di trust, tra cui quello di nominare nuovi trustees o protectors, sostituire i beneficiari e nominarne di nuovi. Egli, inoltre potrebbe essere compreso tra quest’ultimi ovvero ricoprire il ruolo di guardiano o di trustee, finchè in vita. In questo caso, il trust è auto-dichiarato: il settlor impone con l’atto istitutivo un vincolo su determinati beni di sua proprietà, dichiarando di amministrarli nell’interesse dei beneficiari.

Come anticipato, il trustee è l’amministratore del trust e possiede tutti i poteri dispositivi di un pieno proprietario, salvi gli eventuali limiti previsti dall’atto istitutivo.

Laddove sia nominato più di un gestore, si formerà un consiglio le cui riunioni saranno convocate da un avviso di convocazione – contenente un ordine del giorno – e regolate da quorum costitutivi e deliberativi, da modularsi anche in base al tipo di decisione da prendere. In seno al consiglio, inoltre, si potrà dissociare la gestione dalla rappresentanza, distinguendo tra quei trustees che hanno potere di agire nei confronti dei terzi e quelli a cui spetta il solo potere gestorio.

I trustees sono vincolati da obbligazioni fiduciarie di cui rispondono nei confronti dei beneficiari. Tra le più importanti vi è il dovere di agire con diligenza, il dovere di non agire in conflitto di interessi e il dovere di mantenere separati i beni appartenenti al fondo del trust dal proprio patrimonio personale.

Essi possono essere affiancati da uno o più protectors, ai quali l’atto istitutivo di trust può attribuire poteri di supervisione e controllo dei gestori, nonché poteri, anche di veto, in merito alla direzione degli investimenti effettuati. Laddove siano nominati più guardiani, questi si riuniranno in un consiglio che potrà essere regolato dalle stesse previsioni di cui s’è detto sopra per i trustees. Inoltre, sempre purché espressamente previsto nell’atto istitutivo, ai guardiani possono competere poteri di nomina e di revoca dei gestori del trust.

Infine, i beneficiari sono i soggetti nel cui interesse è condotta la gestione del trust e possono vantare diritti patrimoniali e diritti amministrativi.

Tra i primi, vi è il diritto a ottenere una rendita periodica proveniente dai beni su cui il trust insiste, nonché il diritto ad ottenere il trasferimento del fondo in caso di estinzione del rapporto. Tuttavia, come vedremo, il disponente, nell’atto istitutivo, può attribuire loro una semplice aspettativa di reddito che, in quanto tale, è inattaccabile dai creditori personali dei beneficiari stessi.

I diritti amministrativi, invece, sono rappresentati dal diritto nomina e revoca di guardiani e trustees, nonché dal diritto di agire in giudizio nei loro confronti, tanto per l’adempimento delle rispettive obbligazioni, quanto per ottenere il risarcimento dei danni eventualmente occorsi al fondo del trust.

L’esercizio dei diritti amministrativi, inoltre, potrà essere assegnato dall’atto istitutivo di trust alla collegialità dei beneficiari, i quali si riuniranno in un comitato dei beneficiari, convocabile con un ordine del giorno e regolato da quorum costitutivi e deliberativi

Inoltre, protectors e beneficiari, nella loro rispettiva collegialità, potranno avere un diritto ad essere consultati dai trustees e ad esprimere un parere, con portata consultiva o vincolante, in merito a determinate scelte operative che i gestori intendano intraprendere. Tale parere potrà ad esempio concernere l’alienazione di un bene compreso nel fondo, ovvero la determinazione del prezzo del bene che si intende alienare.

Infine, l’atto istitutivo potrebbe anche prevedere il coinvolgimento di terzi, ai quali potrebbero essere assegnati poteri significativi per la vita del trust, quali quello di nominare e revocare trustee e protectors, nonché quello di variare le persone dei beneficiari.

Quanto all’uso di strumenti civilistici tipici dei testamenti, non è infrequente inserire quelle clausole testamentarie volte a sanzionare il comportamento di un erede. In tal senso si può ad esempio prevedere che un beneficiario perda tale qualità laddove impugni l’atto istitutivo di trust.

Inoltre, come sopra anticipato, il trust è in grado di realizzare meccanismi di protezione dei beneficiari, sconosciuti sul continente e realizzabili mediante l’inserimento di clausole discretionary, protective e spendthrift.

In tal modo, infatti, si possono impedire trasferimenti volontari e involontari della partecipazione in trust. I trasferimenti volontari sono impediti a) nei trust discrezionali in quanto, come abbiamo visto in precedenza, sono titolari di un’aspettativa tanto i soggetti appartenenti ad un categoria indicata dal settlor – quando la discrezionalità attiene alle persone dei beneficiari – tanto i beneficiari che siano destinatari di distribuzioni di reddito soggette alla discrezionalità del manager; b) nei protective trust, laddove si ricolleghi il tentativo di alienazione del diritto del beneficiario alla trasformazione del trust in discrezionale e c) negli spendtrhift trusts per causa di legge, la quale impedisce i trasferimenti che occorrono in seguito all’esecuzione dei creditori.

Quest’ultimo tipo di trasferimenti, in particolare, non può avvenire nei trust discrezionali, giacché l’esecuzione non può essere promossa su di un’aspettativa e, nei protective trusts, qualora la trasformazione del rapporto in discrezionale sia subordinata al tentativo di eseguire una pretesa sulla posizione del beneficiario.

Da ultimo, il trust è idoneo a realizzare fattispecie di generation skipping per riallocare all’interno della seconda o della terza generazione il controllo del’impresa. Si pensi ad una clausola dell’atto istitutivo che imponga al trustee di trasferire le partecipazioni al discendente del disponente-imprenditore che manifesti in futuro attitudine a condurre l’impresa e che abbia portato a termine determinati studi, garantendo nel contempo alle generazioni di mezzo delle erogazioni di reddito.

Ciò a cui invece il trust non è in grado di far fronte, in assenza di una specifica disposizione di legge, quale quella introdotta dal legislatore per il patto di famiglia, è la sottrazione a riduzione e collazione degli atti dispositivi compiuti verso il trustee.

A fronte di questo inconveniente, però, il modello anglo-americano garantisce un ulteriore vantaggio, che lo rende particolarmente appetibile e che consiste nella nella possibilità di trasferire al manager qualsiasi bene, oltre alle partecipazioni sociali, che l’imprenditore intenda assoggettare al programma gestorio definito nell’atto istitutivo, adottando un unico veicolo per la trasmissione del suo asse ereditario.

5. La collocazione del trust nel gruppo

L’utilizzo del trust nel gruppo può avvenire secondo due modelli.

L’istituto, infatti, può essere utilizzato quale holding della holding, in sostituzione di una società di persone o di capitali che detiene le partecipazioni della capogruppo, ovvero alla stregua di una vera e propria capogruppo, che funzioni da holding di diverse società controllate.

In entrambi i casi, il fondo in trust è costituito da quelle azioni o quote che consentono il controllo della capogruppo ovvero delle società controllate.

(a) Il trust che detiene le partecipazioni della holding.

Il primo modello potrà essere adottato mediante il trasferimento delle partecipazioni della holding dai soci (persone fisiche) ai trustees, ovvero dalle società che ne detengano il capitale sociale ai gestori del trust.

La catena del gruppo risulterà così allungata e il trustee, al quale sono assegnate le partecipazioni della holding, voterà nell’assemblea della stessa, esercitando diritti amministrativi e patrimoniali. Competeranno, infatti, al gestore del trust, tutti i diritti esercitabili in assemblea e, tra gli altri, la nomina degli amministratori della capogruppo, l’approvazione del bilancio e la distribuzione degli utili da questo risultanti, i quali, conformemente all’atto istitutivo di trust, incrementeranno il fondo in trust e potranno essere distribuiti ai beneficiari ovvero essere imputati a capitale ed eventualmente reinvestiti.

(b) Il trust che detiene le partecipazioni di alcune società ed agisce da capogruppo.

Secondo un differente modello, invece, il trust può funzionare da capogruppo e detenere le partecipazioni di più società riconducibili ad un solo imprenditore. I suoi managers voteranno in ciascuna società partecipata, esercitando i diritti amministrativi e patrimoniali che le azioni e quote appartenenti al fondo in trust assegnano loro.

In proposito si potrebbe pensare a due ipotesi.

Una prima situazione potrebbe non contemplare la presenza della holding e le partecipazioni, in più società, potrebbero essere detenute da una o più persone fisiche. I proprietari, allora, trasferiranno quote e azioni al trustee, che si impegnerà a gestirle nell’interesse dei beneficiari.

Una seconda ipotesi, invece, potrebbe prevedere che tali partecipazioni siano già detenute dalla holding.

Di conseguenza, questa potrà operare in due modi.

Innanzitutto, laddove la capogruppo abbia anche un’attività industriale, sarebbe opportuno scorporare tale attività mediante il trasferimento del relativo ramo d’azienda a società di nuova costituzione ovvero a società già costituita, incrementandone il capitale sociale.

A seguito di simile operazione l’attività della holding sarebbe confinata alla sola gestione delle partecipazioni delle controllate e quest’ultime potrebbero costituire oggetto di atto dispositivo con cui la stessa società doterebbe il trustee del fondo da amministrare nell’interesse dei beneficiari.

Alternativamente, la holding potrebbe deliberare una trasformazione eterogenea in trust ex articolo 2500 septies, mutando le proprie regole organizzative interne e mantenendo i rapporti precedentemente instaurati con i terzi.

(i) Trasformazione eterogenea da società di capitali in trust.

In tema di trasformazioni, la riforma del diritto societario ha abolito il principio dell’omogeneità causale, consentendo il mutamento della forma giuridica, senza costringere i soggetti che ruotano attorno all’ente a provvedere allo scioglimento e ricostituzione. In tal senso, oggi, un cambiamento delle regole di organizzazione non comporta alcun costo transattivo né per i soggetti partecipanti all’ente, in termini burocratici, né per terzi, ai quali è garantita la continuità dei rapporti instaurati con l’ente che intende trasformarsi.

Secondo l’articolo 2500-septies le società di capitali possono trasformarsi in consorzi, società consortili, comunioni d’azienda, associazioni non riconosciute e fondazioni .

Come notato in dottrina, la regola comprende anche le trasformazioni da società di capitali in trust, per almeno due ordini di ragioni.

Innanzitutto deve ritenersi che la categoria delle trasformazioni eterogenee introdotta dalla riforma del diritto societario sia aperta a trasformazioni verso altre fattispecie, diverse da quelle contemplate nell’articolo 2500-septies del codice civile.

In tal senso depongono la rubrica della sezione I del capo X del libro V del codice civile, e l’articolo 2498 c.c.

La prima, infatti, ha abbandonato l’antica dicitura “Della trasformazione delle società”, per adottarne una nuova, “Della trasformazione”, indice dell’atipicità dei mutamenti delle regole organizzative degli enti.

L’articolo 2498 c.c., invece, richiede, ai fini della trasformazione, la sola prosecuzione verso i terzi di diritti e obblighi assunti, nonché dei rapporti processuali dell’ente che ha deliberato la trasformazione. Pertanto, laddove la fattispecie che si concretizza in seguito a tale procedimento sia idonea a garantire la continuità dei rapporti sostanziali e processuali, la trasformazione deve ritenersi ammissibile.

Inoltre, secondo la dottrina prevalente, tale norma non si riferisce ad enti in senso tecnico, altrimenti vi sarebbe una contraddizione laddove al successivo articolo 2500-septies si legittima la trasformazione eterogenea in comunione d’azienda.

In secondo luogo, nell’ottica della riforma, il principio cardine della trasformazione è rappresentato dalla continuità di un patrimonio, indipendentemente dal fine per cui è vincolato e dal mutamento di forma giuridica e regole di organizzazione prescelte dagli attori che ruotano attorno a tale patrimonio.

L’inclusione del trust tra le fattispecie verso cui effettuare una trasformazione eterogenea non contrasta con gli intenti del Legislatore né rompe con la logica sottesa alle regole della riforma.

Il trust, infatti, permette, ai sensi dell’articolo 2598 c.c. il mantenimento di un vincolo sul patrimonio della società che ha deliberato la trasformazione, il quale formerà il fondo in trust e sarà destinato alle finalità previste nell’atto istitutivo. Di conseguenza, si garantisce la conservazione nel tempo di tutte le obbligazioni in precedenza contratte dagli amministratori della società, nonché dei rapporti processuali già instaurati, mutando, eventualmente, le finalità del rapporto, che tuttavia non incidono sulla validità dell’operazione.

Né paiono ostare a simile trasformazione i limiti rinvenibili nella legge o nelle elaborazioni della dottrina.

Quanto ai primi, rileveranno le disposizioni attuative del codice civile e la Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento.

L’articolo 223-octies delle disposizioni attuative del codice pone un divieto di trasformazione in società di capitali per le fondazioni bancarie e per quelle associazioni e fondazioni costituite prima del 1° gennaio 2004, relativamente alle quali la trasformazione sia idonea a distrarre dalle originarie finalità fondi o valori creati con contributi di terzi o in virtù di particolari regimi fiscali.

Ovviamente, la norma non può trovare applicazione alla trasformazione eterogenea da società di capitali in trust, in quanto destinata ad operare esclusivamente per le fattispecie ivi contemplate.

Anche dalla Convenzione dell’Aja non paiono pervenire alcune limitazioni, anzi. Gli articoli 2 e 3 della stessa  richiedono, quando il trust è istituito inter vivos, la prova scritta, che deve ritenersi integrata dalla decisione di trasformazione, presa dai soci in sede straordinaria.

Quanto invece ai limiti segnalati dalla dottrina, si è sostenuto che la trasformazione eterogenea non sia ammessa laddove caratterizzata dall’illiceità o dall’impossibilità della causa o non possa aver luogo grazie a clausole statutarie che la escludono, ovvero a situazioni organizzative incompatibili con l’ente verso il quale la trasformazione è effettuata, quali l’emissione di obbligazioni e di strumenti finanziari partecipativi, nonché la destinazione di un patrimonio ad uno specifico affare.

Il primo limite non pare operare, atteso che non è ravvisabile né con riferimento al negozio istitutivo né con riferimento a quello dispositivo e l’eventuale illiceità della causa dovrà essere riscontrata caso per caso.

Paiono invece superabili tanto la presenza di clausole limitative delle trasformazioni quanto quella di particolari situazioni organizzative.

Infatti, tali clausole la cui legittimità rispetto ai principi generali del nostro diritto societario potrebbe non essere pacifica, costituiranno un limite effettivamente opponibile soltanto in caso discordia dei soci sulla trasformazione, atteso che l’assemblea potrà sempre, in sede straordinaria, apportare una modificazione allo statuto.

Qualora invece si fossero emessi obbligazioni o strumenti finanziari partecipativi, ovvero si fosse destinato un patrimonio ad uno specifico affare, occorrerà verificare se il trust sia in grado, con strumenti alternativi, di riprodurre i medesimi meccanismi realizzati dalla società per azioni in tali fattispecie.

Con riferimento ai titoli obbligazionari, un’unica e non trascurabile controindicazione potrebbe provenire dalla impossibilità di creare titoli di credito atipici, sulla quale la dottrina non è unanime. Essi, allora, potrebbero essere sostituiti con un contratto tra il trustee in qualità di amministratore del trust e ciascun obbligazionista, mediante il quale il primo si impegna negli stessi termini e con la stessa tempistica prevista per i titoli, a restituire l’ammontare versato dal secondo, il quale a sua volta dovrebbe impegnarsi a soddisfare le proprie ragioni sui soli beni compresi nel fondo stesso. In tal modo, si replica la struttura economica dell’impegno preso dalla società verso gli obbligazionisti e quest’ultimi, anziché essere garantiti dal patrimonio della stessa, potranno contare sul fondo in trust.

La situazione, peraltro, non è estranea nemmeno ai trusts che operano in common law, laddove, ad esempio, si riconosce la possibilità per il trustee di emettere obbligazioni garantite da immobili facenti parte del fondo amministrato nell’interesse dei beneficiari. Chiaramente, però, si dovranno predisporre, convenzionalmente, gli stessi meccanismi di tutela che il codice civile garantisce agli obbligazionisti di una società per azioni.

Anche gli strumenti finanziari partecipativi non paiono essere in grado di ostacolare la trasformazione eterogenea, atteso che l’elasticità del trust permette l’allocazione di diritti patrimoniali ed amministrativi in modo tale da consentire una puntuale replica della posizione giuridica dei loro titolari.

Infine, in considerazione del tipo di attività esercitato dalla holding, parrebbe potersi escludere l’utilizzo di patrimoni destinati ad uno specifico affare, i quali, ove esistenti, potrebbero pur sempre essere oggetto di conferimento in nuova società.

All’assenza di limitazioni legali e strutturali non corrisponde un’assenza di limitazioni di tipo economico.

Infatti, la trasformazione eterogenea della holding in trust può essere pregiudicata da limiti di natura economico-relazionale che l’art 2497-quater c.c., lettera a) impone. Tale norma, infatti, consente l’esercizio del diritto di recesso ai soci di minoranza delle controllate, laddove la società o l’ente che esercita la direzione e il coordinamento abbia deliberato una trasformazione implicante il mutamento del suo scopo sociale ovvero una modifica del suo oggetto sociale «consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali» della società eterodiretta. Chiaramente, il profilo rilevante è il primo, rispetto al quale si potrebbe avanzare qualche dubbio in ragione della trasformazione in trust, che potrebbe determinare l’abbandono dello scopo lucrativo.

Ebbene, l’eventuale esercizio del diritto di recesso da parte dei soci di minoranza delle controllate potrebbe rappresentare un disincentivo per i soci della holding, che eserciti attività di direzione e coordinamento, a deliberare la trasformazione eterogenea in trust.

(ii) La decisione di trasformazione

La decisione di trasformazione deve essere presa con il voto favorevole dei due terzi degli aventi diritto e, laddove vi siano soci assenti o dissenzienti, questi potranno esercitare il recesso dalla società in corso di trasformazione (2500 septies c.c.).

La trasformazione ha effetto soltanto sessanta giorni dall’ultimo degli adempimenti pubblicitari, a meno che tutti i creditori abbiano espresso il loro consenso ovvero quelli contrari siano stati soddisfatti delle proprie ragioni.

Nei sessanta giorni i creditori possono proporre opposizione alla delibera di trasformazione, fornendo al Tribunale la prova dell’esistenza di un concreto pericolo di pregiudizio ai propri diritti, derivante dalla stessa trasformazione. Sul tema, la dottrina ha ritenuto che simile concreto pericolo di pregiudizio non sia insito nel solo fatto di procedere ad una trasformazione in fattispecie diverse da quelle societarie.

Ricevuta l’opposizione, il giudice, secondo gli articoli 2500 novies e 2445, reso applicabile dal primo, può autorizzare la trasformazione purché siano prestate idonee garanzie.

Va tuttavia sottolineato come in caso di trasformazione eterogenea da società di capitali in trust non paiono potersi ravvisare pregiudizi in capo ai creditori. Infatti, per effetto della trasformazione, non varia la consistenza dei beni sopra i quali essi potevano promuovere, antecedentemente alla trasformazione, l’azione esecutiva. Né le regole di responsabilità del trust paiono avere effetti pregiudizievoli in capo al ceto creditorio.

Il giudice, tuttavia, potrebbe subordinare gli effetti della trasformazione alla prestazione di una garanzia.

Infine, alla decisione di trasformazione sarà allegato l’atto istitutivo di trust.

6. Trust e patto di famiglia alla luce di recenti tentativi di riforma

Il Decreto Sviluppo recentemente elaborato dal Governo e sottoposto al Presidente della Repubblica comprendeva una riforma del patto di famiglia, stralciata dal testo del decreto stesso antecedentemente alla sua emanazione.

Tale riforma si proponeva di correggere i difetti sopra evidenziati, disponendo che la partecipazione dei legittimari diversi dall’assegnatario delle partecipazioni fosse solo eventuale e differendo gli effetti del trasferimento delle partecipazioni allo scadere di un termine o al verificarsi di una condizione (sospensiva non retroattiva) ovvero alla designazione, da parte di un terzo, del subentrante nel controllo dell’azienda.

La rimozione della necessaria partecipazione al patto di tutti coloro che sarebbero legittimari laddove al momento della conclusione dell’accordo si aprisse la successione dell’imprenditore avrebbe notevolmente abbassato i costi transattivi e  determinato un sicuro incremento nell’adozione dell’istituto. In tal modo si sarebbero evitati i comportamenti opportunistici dei non assegnatari di cui si è dato conto in precedenza.

Tale assenza, peraltro, era compensata, nel progetto del Legislatore, da una notifica dell’esistenza del patto e da una relazione giurata di un esperto, designato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società o l’impresa, contenente la descrizione dei beni e l’attestazione del loro valore, sulla scorta di quanto richiesto dal diritto societario per i conferimenti in natura nelle società per azioni. Si sarebbe così garantita la congruità del valore assegnato alle partecipazioni da imprenditore e assegnatario, sulla cui base i non assegnatari avrebbero avuto diritto a percepire un importo proporzionale alla quota di legittima di ciascuno.

La liquidazione di questi soggetti, inoltre, avrebbe potuto avvenire anche ad opera dell’imprenditore, abbattendo così quell’ostacolo che la liquidazione dell’assegnatario importa.

Quanto invece al ruolo del terzo, questo sarebbe entrato in gioco in due casi.

In una prima ipotesi l’imprenditore avrebbe potuto subordinare il trasferimento delle partecipazioni a un termine o a un evento che occorrano successivamente alla sua morte, riassegnando, tra quest’ultimo evento e il verificarsi di quello dedotto nel termine o nella condizione, il controllo delle partecipazioni ad un terzo.

Una seconda ipotesi contemplava invece l’attribuzione ad un terzo del potere di scegliere l’assegnatario, entro la cerchia dei legittimari, dopo la morte dell’imprenditore stesso.

Tra la morte dell’imprenditore e l’accettazione del beneficiario, nonché tra la morte imprenditore e il verificarsi della condizione o lo scadere del termine, le partecipazioni avrebbero formato patrimonio separato in capo dal terzo, sottratto alle azioni dei suoi personali creditori ovvero promosse nell’interesse degli stessi.

Il terzo avrebbe dovuto amministrare partecipazioni (e frutti) secondo le indicazioni contenute nel contratto, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico ed evitando situazioni di conflitto di interessi. Inoltre, il terzo sarebbe stato onerato dell’obbligo di rendiconto.

Tali regole comportamentali costituivano, nell’ottica della riforma, una traccia dello strumento giuridico che l’imprenditore avrebbe potuto adottare, lasciando però spazio per l’impiego di altri modelli – quali il trust, il contratto di affidamento fiduciario o il contratto di fiducia (se mai approvato) – con cui dare esecuzione al patto di famiglia.

Quest’ultimo, infatti, sarebbe uscito dalla riforma quale contratto-quadro, programma di successione nell’impresa, da eseguirsi con gli strumenti giuridici ritenuti più opportuni dall’imprenditore.

In tale prospettiva, utilizzando il trust congiuntamente al nuovo patto di famiglia, si sarebbe potuto ovviare all’incapacità del primo di rendere insensibili gli atti dispositivi all’azione di riduzione, sfruttando, nel contempo tutti i vantaggi che il modello anglo-americano comporta rispetto alle esigenze sopra evidenziate.