Frodi nella riscossione iva, carosello tra onere della prova, inesistenza e inerenza.

Frodi nella riscossione iva, carosello tra onere della prova, inesistenza e inerenza.
Oggetto del presente lavoro sono alcune riflessioni sul corretto inquadramento giuridico di diffusi meccanismi di frode tributaria, con particolare riguardo a tre profili problematici, atteso che ci occuperemo qui di tre questioni: a) la prova e l’assetto dei relativi oneri; b) la ricorrenza di ipotesi di fittizietà (e la conseguente rilevanza penale delle condotte), c) la rilevanza del concetto di inerenza ai fini dell’eventuale disconoscimento delle operazioni in sede tributaria.
Il tema della prova attiene, in primo luogo, all’individuazione del soggetto processuale (contribuente o Ufficio finanziario) su cui gravi il relativo onere.
La lettura delle sentenze in materia restituisce un’immagine abbastanza complessa, e non del tutto nitida.
Se, da un lato, troviamo pronunce giurisprudenziali che sembrano propendere per la soluzione secondo cui l’onere probatorio starebbe a carico del contribuente, dall’altro ci si imbatte in sentenze che si orientano, almeno parzialmente, diversamente. Non mancano sentenze che – magari senza arrivare alla espressa affermazione contraria, quella della spettanza dell’onere della prova in senso proprio e pieno sul Fisco – formulano delle di giudizio in base alle quali l’Amministrazione finanziaria sarebbe gravata comunque da alcuni adempimenti, sul piano della attività istrutturia, della allegazione e della argomentazione.
A ben vedere, sia l’affermazione della spettanza dell’onere all’Amministrazione Finanziaria, sia quella opposta, si prestano a qualche possibile annotazione critica.
Alla prima delle due soluzioni (l’onere della prova incombe sulla Amministrazione) si possono muovere due obiezioni, una agevolmente superabile e l’altra decisamente più solida.
La prima obiezione è che si tratterebbe di provare un fatto negativo, ossia la non esistenza di un’operazione; obiezione, come detto, probabilmente agevolmente superabile, dal momento che l’Ufficio non deve necessariamente dimostrare l’inesistenza, potendosi limitare alla dimostrazione di alcuni fatti dai quali poterla, a sua volta, desumere (ad esempio, per dimostrare che un trasporto di beni non è avvenuto, il giorno x, tra le località A e B, è sufficiente dimostrare che il giorno x quei beni si trovavano nella località C, incompatibile). La seconda obiezione, decisamente più forte, riguarda la regola generale di ripartizione dell’onere della prova, mutuata in ambito tributario dalla disciplina civilistica. Secondo l’art. 2697 c.c., la prova del fatto costitutivo del diritto incombe sul titolare del diritto stesso, in ossequio al noto brocardo “onus probandi incumbit ei qui dicit”. Così come la deduzione di un costo è un diritto del contribuente, che corrisponde a conseguenze favorevoli nei suoi confronti (minore imposta), il Fisco parrebbe gravato dall’onere della prova della sussistenza della materia imponibile, giacchè essa gli attribuisce il diritto alla percezione dei relativi tributi.
Ne consegue, ragionando secondo le generalissime regole civilistiche, che, poiché la detrazione o deduzione dei costi sostenuti è un diritto del contribuente, dovrebbe essere quest’ultimo a doverne dimostrare i fatti costitutivi.
Anche tale prospettiva, però, non può essere sostenuta a cuor leggero. Essa incontra, infatti, un ostacolo di carattere pratico rilevantissimo. Se, infatti, così fosse, all’Ufficio basterebbe contestare genericamente l’insussistenza di ogni operazione per far gravare “di rimbalzo” l’onere della prova sul contribuente. L’effetto che ne conseguirebbe pare sproporzionato, ove si consideri che nella vita di un’impresa, ad esempio, le operazioni passive possono essere migliaia ed il contribuente si vedrebbe schiacciato, a fronte di una generica contestazione, da un onere della prova, specifico, di adempimento estremamente complesso, quando non persecutorio.
2. La giurisprudenza tende a risolvere le questioni rifacendosi alla regola dell’onere della prova e dichiarando di risolvere le questioni a tale livello argomentativo. Tale inquadramento appare, tuttavia, improprio e parzialmente fuorviante. Innanzitutto, si trascura di considerare che il problema non riguarda, tanto e solo, la prova in giudizio, ma gli oneri (di istruttoria, prova, e forse anche motivazione) nell’ambito del procedimento amministrativo tributario.
Questi orientamenti dimenticano, a nostro sommesso avviso, che l’accertamento tributario è necessariamente una procedura amministrativa e solo eventualmente un giudizio e che la prova in giudizio è, per così dire, secondaria, rispetto alla istruttoria amministrativa. Incentrare il discorso sull’onere della prova nel processo rischia di far perdere di vista, almeno in parte, la fase amministrativa, con i suoi doveri, regole, oneri e garanzie. Tale fase amministrativa e i suoi risultati condizionano, invece, nettamente il contenuto e l’andamento del giudizio.
La giurisprudenza, inoltre, fa riferimento all’onere della prova ritenendo che esso si disponga in modo differente, a carico di una parte o dell’altra, a seconda del materiale probatorio acquisito al processo. Appare chiaro, allora, che, non ostanti le contrarie affermazioni espresse delle motivazioni, il ragionamento, conreto e giuridico, la reale ratio decidendi delle pronunce non si colloca al livello della regola di cui all’art. 2697 c.c.
La regola generalissima dell’onere della prova ripartisce le conseguenze dell’esito della mancata prova in relazione alla natura del fatto da provare, secondo la nota ripartizione tra fatti costitutivi del diritto (la cui mancata prova va a danno di chi chiede la tutela del diritto medesimo), da un lato, e modificativi, impeditivi o estintivi, dall’altro (la cui mancata prova danneggia chi si oppone al riconoscimento di quel diritto). Gli approdi più recenti di giurisprudenza e dottrina tendono a suggerire come criterio di ripartizione di tali oneri anche e integrativamente il principio di vicinanza della prova, intesa come attribuzione del relativo onere alla parte cui il compito resta ragionevolmente più semplice (per la maggior contiguità rispetto ai fatti da provare e la conseguente facilità a disporre dei mezzi di dimostrazione).
Ebbene, è evidente, a nostro modesto avviso, che le sentenze in rassegna non si muovono a questo livello: le soluzioni adottate non assumono diverse conclusioni né quanto alla natura e il valore giuridico della esistenza della operazione passiva, rispetto al diritto di detrazione (ritenuta da tutte le sentenze fatto costitutivo del diritto alla detrazione), né rispetto alla vicinanza del fatto da provare (essendo evidente che è sempre il contribuente il soggetto “più vicino” alla operazione e, quindi, agevolato a fornirne la prova).
Gli orientamenti della Corte si muovono su di un piano diverso, che può essere individuato in uno dei due seguenti.
Il primo è quello della prova. Se si assume che la fattura sia prova, ordinariamente, della operazione passiva, è possibile ritenere che sia l’Ufficio a dover dimostrare, di norma induttivamente, che l’operazione è, in realtà, fittizia. Ove tale prova sia fornita (per l’esemplificazione sui possibili modi di assolvimento di essa si veda oltre), l’”onere della prova” che incombe, di rimbalzo, al contribuente non è un onere di “prova contraria” in senso tecnico. L’Ufficio deve aver fornito una prova plausibile e convincente anche per il giudice, che ben potrebbe smontarla e ritenerla non credibile, anche in assenza di qualsiasi allegazione o attività difensiva del contribuente. Non ricorre quindi un onere della prova in senso proprio, atteso che il contribuente potrebbe ottenere ragione anche senza allegare alcunché.
Non solo, è opportuno soggiungere, in particolare, che tali adempimenti dell’Ufficio si devono collocare nella fase della istruttoria amministrativa: l’Ufficio ha un onere di diligente istruttoria, il cui inadempimento ridonda e a violazione dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione, e della buona fede.
Tale profilo non sempre è adeguatamente enfatizzato, a nostro sommesso avviso, ma è essenziale.
La differenza dell’inquadramento qui proposto, rispetto alla ricostruzione della fattispecie come mera inversione dell’onere della prova e onere di prova contraria è palese.
Il riferimento alla “prova contraria” per il contribuente significa una cosa del tutto diversa: che quando l’Ufficio, sulla base degli elementi ragionevolmente conoscibili, ha fornito la prova, allo stato dei fatti raccolti, per così dire, della sua pretesa (l’inesistenza della operazione), o il contribuente allarga l’area dei fatti da tenere in conto (allegando ulteriori circostanze, ad esempio che i beni non sono stati trasportati dal vettore che ha negato il trasporto ma da un altro, che è vero che l’assegno destinato al pagamento è stato riscosso dallo stesso contribuente, ma poi la somma versata al fornitore, e via esemplificando) o la causa è persa.
Anzi, a rigore, l’effetto appena descritto dovrebbe prodursi anche qualora l’attività dell’Ufficio, anche senza fornire la dimostrazione della inesistenza della operazione, abbia ridotto l’efficacia probatoria del materiale offerto dal contribuente, facendo scendere tale efficacia sotto il livello della plausibilità sufficiente. Detto in altri termini, quando l’attività dell’Ufficio di contrasto della prova renda non più ragionevolmente certa l’esistenza della operazione. In questa ipotesi, per effetto delle iniziative dell’Ufficio, non può più dirsi che il contribuente ha assolto al suo onere originario e, quindi, se il processo si arresta a questo punto, non potendo dirsi raggiunta la prova della esistenza della operazione, la detrazione andrebbe disconosciuta.
In questi casi l’Ufficio, più che aver offerto una prova (contraria) della inesistenza della operazione, avrebbe contrastato, in modo efficace, la prova della esistenza di essa.
Questo meccanismo non concerne l’onere della prova ma è tutto interno al modo di svolgersi del giudizio sul fatto ed al principio di ragionevolezza. È lo stesso meccanismo (e lo stesso equivoco) in cui la giurisprudenza spesso, a nostro avviso, cade anche in altri contesti, ad esempio a proposito della pretesa prova contraria alle presunzioni semplici. L’Ufficio deve fornire una prova ragionevole del suo assunto (l’operazione è inesistente), o, almeno, demolire l’efficacia probatoria dei mezzi offerti dal contribuente (di tal che non possa più dirsi ragionevolmente certa l’esistenza della operazione), sulla base dei dati acquisibili e acquisiti in esito a una attività diligente di istruttoria. Ciò che poi è, per così dire, fuori della portata dell’Ufficio non deve essere provato da questo. I fatti che l’Ufficio non può ragionevolmente conoscere, perché fuori dal suo dominio (non conosciuti né conoscibili sulla base di una istruttoria ragionevolmente diligente) devono semmai essere provati dal contribuente.
Il meccanismo presenta similitudine con la ripartizione dell’onere della prova tra fatti costitutivi e modificativi (o impeditivi o estintivi), ma non si tratta della stessa cosa. Quando si tratta di onere della prova in senso proprio e tecnico, si tratta di provare fatti diversi (una cosa è provare la stipula di un contratto, un’altra provare la sua risoluzione), nelle fattispecie considerate dalla giurisprudenza in materia si tratta della misurazione della probabilità dello stesso fatto (l’esistenza/inesistenza della operazione), probabilità la cui sufficienza è una variabile che dipende dal contesto conosciuto, dai fatti acquisiti al processo.
Sulla base dei fatti conosciuti e conoscibili dall’Ufficio, acquisiti con una diligente istruttoria e, eventualmente, da questo portati in giudizio, la probabilità di inesistenza della operazione può essere sufficiente, o, almeno, insufficiente la probabilità di esistenza (la consegna dei beni oggetto della fattura è stata smentita, il pagamento non è stato effettuato con il mezzo apparente, ecc.), ma la allegazione di altre circostanze da parte del contribuente può, nuovamente, ribaltare il quadro, e far tornare la verosimiglianza di esistenza della operazione sopra il livello della sufficienza.
Si tratta di un meccanismo normale nel processo che dalle sentenze in rassegna non emerge in modo espresso, ma è assolutamente centrale: un processo è un accertamento della realtà allo stato degli atti, la prova è il risutato di una vicenda dinamica e lo standard di plausibilità non è un valore assoluto, ma dipende dagli elementi acquisiti e acquisibili, nel bilanciamento e valutazione ponderata della condotta processuale delle parti.
Queste conclusioni escono, poi, notevolmente rafforzate quando, come nel diritto tributario, il processo deve coordinarsi con (e inserirsi su) gli esiti della istruttoria amministrativa.
3. Spostandosi al problema della sanzionabilità delle frodi, poiché la fittizietà della operazione rileva, in primo luogo, quanto alla rilevanza penale delle relative condotte, l’analisi viene in primo luogo condotta con riferimento a tale settore. Alla allarmante diffusione del meccanismo delle frodi carosello si è, dopo che con la leva amministrativa rappresentata dal potenziamento degli strumenti di indagine e di accertamento e dalla previsione della responsabilità solidale del cessionario, infine, tentato di reagire attraverso l’uso dello strumento della repressione penale.
Come è evidente, il nucleo essenziale della frode carosello, e, nello stesso tempo, l’epicentro della offensività della condotta, è rappresentato dalla omissione del versamento della imposta da parte del soggetto interposto.
Senza l’omesso versamento della imposta, infatti, da un lato, viene meno il vantaggio complessivo della manovra (sul piano dei corrispettivi privati, l’interponente, destinatario finale del bene nella catena fraudolenta, lo riceve a un prezzo favorevole, ma l’interposto vende sottocosto, realizzando una corrispondente perdita) ma viene meno anche l’evasione fiscale (è vero che l’interponente-cliente detrae una imposta a monte ma questa è versata dall’interposto-fornitore). Al limite, può esistere una perdita di gettito, rispetto all’imposta che sarebbe riscossa con una vendita a prezzi di mercato, ma ciò dipende dal fatto che la vendita è avvenuta per corrispettivi effettivi inferiori, e non si realizza, quindi, alcuna evasione.
Poiché il diritto penale tributario riformato nel 2000 non contemplava una norma direttamente incriminatrice di tale condotta, sono intervenuti due tipi di reazione da parte dell’ordinamento giuridico.
Il primo, concettualmente ineccepibile, è l’emenda del sistema normativo. In questa direzione il legislatore si è mosso, con la introduzione dell’art. 10-ter del d. lgs. 74/2000 (omesso versamento di IVA) , che richiama la sanzione di cui all’art. 10 – bis (omesso versamento di ritenute certificate): reclusione da sei mesi a due anni, per chi non versi l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. La sanzione è applicabile in caso in cui l’importo evaso superi i 50 mila euro.
Il secondo è il tentativo, coronato da successo secondo la prevalente giurisprudenza, di ricondurre le condotte proprie della frode carosello e delle frodi da omesso versamento iva ad altre fattispecie incriminatrici, proprie del particolare settore del diritto penale tributario (a seconda dei casi, gli art. 2 e 8 d. lgs. 74/2000) o del diritto penale generale (fino alla penultima giurisprudenza, la truffa aggravata ai danni dello Stato di cui all’art. 640 c.p.).
4. Assai più complesse, rispetto alle questioni appena esaminate sulla configurazione del delitto di cui all’art. 10 ter, sono le questioni relative alla ipotizzabilità dei delitti di frode previsti dal diritto penale tributario.
La giurisprudenza, con zelo particolarmente urgente, nel caso di condotte poste in essere prima della previsione di cui all’art. 10 ter, di fronte al dubbio se la frode dovesse andare esente da conseguenze penali, si è domandata se non potessero riconoscersi nella fattispecie altre figure criminose.
La questione si è tosto concentrata sulla possibilità di riconoscere, nei vari passaggi delle frodi carosello, operazioni inesistenti, con conseguente configurazione, a seconda dei casi, dei delitti di cui agli artt. 2 o 8 d. lgs. 74.
Più precisamente, l’interrogativo posto è se, atteso che i beni, nella fattispecie descritta dal fornitore comunitario, pervengono effettivamente all’ultimo cessionario interponente, non possano ravvisarsi gli estremi, più che della operazione oggettivamente inesistente, della operazione soggettivamente inesistente. L’ipotesi di lavoro è, in buona sostanza, che sotto le operazioni apparenti si celi una unica cessione, tra il primo e ultimo anello della catena.
Una giurisprudenza tutt’altro che isolata riconosce sia nel passaggio A →B delle architetture fin qui considerate (cedente comunitario→interposto), sia nel passaggio B→C (interposto→interponente) operazioni inesistenti perché simulate, assumendo che l’unico contenuto reale della operazione sarebbe il trasferimento A→C. Questa impostazione ricorre con notevole frequenza negli arresti della Corte di Cassazione.
Si può subito anticipare che, per le ragioni che si vedranno meglio tra poco, tale soluzione appare largamente insoddisfacente. Quantomeno nelle formulazioni generalizzanti e, a nostro sommesso avviso, non sempre compiutamente argomentate proprie di parte delle pronunce. E’ nostra ferma convinzione, insomma, che questa impostazione, se intesa alla lettera, senza adeguate e caute specificazioni, potrebbe nascondere, o quantomeno suggerire e avallare, un grave errore di prospettiva giuridica.
L’analisi deve quindi essere condotta in modo disteso.
Due delle premesse assunte dalla Corte alla base del proprio orientamento sono sicuramente ineccepibili.
La prima è che, nella nozione di operazione inesistente di cui al d. lgs. 74/2000, rientrano sicuramente anche ipotesi in cui la simulazione concerna i soggetti della operazione. A tacer d’altro, ciò è detto espressamente dall’art. 1 del d.lgs. 74/20000.
La seconda è che la punizione per le condotte fraudolente e simulate corrisponde a un’area ampia, siccome, almeno alla lettera, le condotte fraudolente vengono punite anche in assenza di danno erariale. L’emissione di fatture per operazioni inesistenti, ad esempio, è punita anche se al fine di far evadere (dolo specifico) non corrisponde una concreta evasione. La giurisprudenza riconosce, poi, che le operazioni simulate sono comunque punibili quando determinino il mero spostamento della materia imponibile da un soggetto all’altro, anche se l’imposta riscossa nel complesso non è inferiore a quella che sarebbe stata riscossa senza frode. Tale ultimo profilo viene di solito compendiato nella espressione secondo la quale i delitti in esame apparterrebbero alla categoria dei delitti di pericolo presunto.
Ciò non toglie, tuttavia, che ci sia un terzo profilo, essenziale, che non sempre sembra adeguatamente colto dalla giurisprudenza in materia. Esistono, infatti, due modi diversi di essere, dal punto di vista della sostanza giuridica, della fattispecie qui descritta.
Nella prima, le parti non vogliono la realizzazione dei passaggi intermedi, ma solo il trasferimento del bene A→C. I passaggi A→B e B→C non sono voluti, ma solo simulati.
Nella seconda, le parti invece vogliono anche i passaggi intermedi, che sono effettivi.
Ebbene, è palese che l’operazione è inesistente, in senso proprio e giuridico, solo nella prima ipotesi. Nella seconda, gli effetti giuridici intermedi sono voluti e si verificano. Si può indagare quanto si vuole sul fatto se tali passaggi abbiano una funzione economica effettiva diversa da quella del risparmio fiscale. Si può anche concedere che, di regola, tale funzione non sussiste. Ma ciò non rende l’operazione inesistente. Si tratta di una operazione voluta ed effettiva. E, anzi, l’effettività della operazione non è incompatibile con i risultati avuti di mira, come meglio si vedrà poco oltre.
Lo strumentario penale della repressione delle operazioni inesistenti è, quindi, applicabile alla condizione che si possa affermare che il trasferimento non vi è stato, in termini giuridici, non che esso non aveva ragioni economiche. Confondere i due piani significa confondere sostanza giuridica con sostanza economica, evasione ed elusione, interposizione fittizia e interposizione reale.
Non in tutti i casi esaminati dalla giurisprudenza (e qui si apre il versante critico) le sentenze paiono aver condotto questa analisi nel modo corretto. Quantomeno, di tale profilo di analisi, che è assolutamente essenziale, non risulta di regola alcuna traccia motivazionale. Se, infatti e in ipotesi, i passaggi intermedi potrebbero correttamente dirsi insussistenti quando di essi non risulti null’altro che non le fatture (e risulti che la contrattazione è avvenuta esclusivamente tra fornitore extracomunitario e cliente interponente), in molti altri casi tale prova non pare proprio essere stata né raggiunta, né tantomeno ricercata. La giurisprudenza, in tali casi, sembra essere ispirata da una prospettiva gravemente incompleta della fattispecie.
Alcune circostanze che la giurisprudenza tende a valorizzare sono, infatti, poco appaganti. Così, ad esempio, che il bene sia scelto dall’interponente nulla significa. Volendo formulare una argomentazione paradossale, se tale circostanza fosse decisiva, dovrebbero ritenersi inesistenti tutti i contratti di leasing nei quali il bene viene individuato dal locatore. Ugualmente, non pare decisivo che il preteso interposto non abbia mezzi materiali. Ciò che qualifica una operazione inesistente è il fatto che l’effetto giuridico apparente non si sia prodotto. L’esistenza dei mezzi materiali è del tutto irrilevante, a nostro modo di vedere, rispetto alla produzione dell’effetto giuridico dell’acquisto di un bene (rispetto al quale è sufficiente la volontà e la capacità giuridica dei soggetti).
Tale argomentazione soffre, a nostro modesto avviso, di un errore di impostazione iniziale: trasporta al campo delle frodi carosello lo strumentario (concettuale e probatorio) della classica operazione inesistente da cartiera: quella nella quale si simula l’acquisto di beni o servizi mai forniti da un fornitore non operativo. In quelle ipotesi, ove l’inesistenza concerne la prestazione, è ovvio e coerente che la mancanza di mezzi dell’apparente fornitore rilevi: se si detrae l’iva per l’acquisto di prosciutti dal dichiarato produttore è sicuramente indice di falsità il fatto che questi non abbia impianti, non acquisti suini, non abbia dipendenti, ecc. Ma tutto questo complesso di ragionamenti e di indizi è totalmente privo di efficacia decisiva quando non sia in discussione l’esistenza o meno del bene o servizio scambiato, ma solo se nella catena dei passaggi del bene (per i servizi la questione è un po’ più complessa) il passaggio intermedio sia stato effettivo. Quando si tratti di circolazione di beni, mezzi non sono necessari: per aversi una operazione effettiva è sufficiente che vi siano a) un soggetto interposto reale; b) un soggetto che ne formi la volontà contrattuale; c) la volontà effettiva di produrre l’acquisto e la rivendita. Se questi vi sono, l’operazione è effettiva, anche se l’interposto non ha mezzi. Opinare il contrario è radicalmente contrario ai capisaldi della legge civile sottostante il fenomeno tributario.
E, in effetti, sotto altro profilo, la effettiva produzione degli effetti giuridici è perfettamente compatibile con gli obiettivi avuti di mira dagli attori della frode carosello. Mentre nella ipotesi classica del costo fittizio reperito attraverso una operazione con una cartiera l’operazione non esiste e non è voluta (e il corrispettivo non è versato o se è versato è retrocesso), perché altrimenti l’operazione non funzionerebbe, nelle ipotesi di frode carosello (e frodi nella riscossione in genere) la finzione non è altrettanto essenziale agli obiettivi perseguiti.
Le operazioni possono essere finte, ma non lo sono necessariamente. Il vantaggio perseguito è, infatti, compatibile con la effettività della operazione. E ciò vale sia nella ipotesi di frode con vendita a prezzi inferiori a quelli di mercato e reale pagamento dell’iva tra cliente e missing trader, sia nelle altre architetture ipotizzate sopra.
Se il missing trader vende a prezzi favorevoli perché si “rivale” sull’iva versatagli, l’effettività della operazione (e dei relativi pagamenti tra le parti) è funzionale al vantaggio perseguito da tutte le parti.
Ugualmente, se la vendita non avviene a prezzo anomalo ma le parti si spartiscono l’iva, cade l’effettività del pagamento dell’iva tra cliente e missing trader, ma l’effettività del trasferimento non ostacola in alcun modo il perseguimento degli obiettivi avuti di mira. L’inesistenza della operazione va pertanto concretamente e specificamente provata.
Se poi la vendita avviene sottocosto e l’iva viene spartita (o retrocessa al cliente) cade sia l’effettività dell’iva, sia l’economicità della operazione per il missing trader, ma ciò non è ancora la prova di una fittizietà giuridica della operazione. Essa appare ragionevolmente fittizia, in questi casi, quando il missing trader è una società autonoma, anche sostanzialmente, per l’ovvio motivo che non si vede perché un terzo si intrometterebbe in una operazione che le reca solo perdita e vantaggi esclusivamente alle altre parti. Quando, però, il missing trader sia, anche solo sostanzialmente, una emanazione del cliente (e ciò normalmente è), non vi è alcuna ragione per ricorrere alla fittizietà per spiegare l’operazione. Nell’ambito di una logica di “gruppo” in senso lato, è ben possibile che si programmi di accentrare gli utili su una società e le perdite su un’altra. La manovra è certamente disonesta, integra sicuramente reato (concorso nell’omesso versamento) ma non implica affatto l’inesistenza delle operazioni.
La giurisprudenza in materia appare, pertanto, non del tutto appagante sul punto: essa non indaga adeguatamente se, in concreto, nelle operazioni ricorrano indizi di, se ci si passa il calembour, “vera fittizietà”: le motivazioni di norma si arrestano al sillogismo standard e insoddisfacente secondo cui a) fittizie sono anche le operazioni soggettivamente inesistenti e b) nelle frodi carosello i passaggi intermedi, siccome privi di giustificazione economica, sarebbero soggettivamente fittizi.
La conclusione ci pare chiara e netta: le operazioni inerenti le frodi carosello non sono inesistenti, salva una specifica e analitica prova di tale circostanza, atteso che, di norma, esse sono fiscalmente vantaggiose (e illecite) anche senza essere progettate e attuate come fittizie.
5. Vi è, infine, un aspetto interessante da analizzare, concernente l’accertamento della possibile rilevanza del concetto di inerenza ai fini del regime tributario delle operazioni fraudolente in esame. La Corte di cassazione, chiamata a decidere sull’ammissibilità della detrazione dell’I.V.A. a monte, in un caso di acquisto da fornitore apparente, ha sviluppato un ragionamento alquanto interessante. Essa, a tutta prima, pare affermare in modo piuttosto deciso l’indetraibilità dell’iva correlata ad operazione soggettivamente inesistente. La motivazione, tuttavia, viene poi a stemperarsi in una affermazione più possibilista. La Corte afferma, infatti, che la soggettiva inesistenza dell’operazione è potenziale espressione di distrazione di fondi dell’impresa verso finalità ad essa estranee, ed è dunque elemento indiziario di non inerenza del costo. Ne consegue che la detrazione è ammissibile solo se il contribuente fornisca una prova, rigorosa, dell’effettiva sussistenza dell’operazione, e della sua inerenza.
Questa argomentazione merita una piccola riflessione: in effetti non appare così evidente perché l’interposizione fittizia di un fornitore solo apparente tra il cliente e il fornitore effettivo dovrebbe essere indiziaria di difetto di inerenza. La fittizietà dell’interposizione, invero, è sicuramente indiziaria di frode, dal momento che, se un acquirente finge da acquistare un bene od un servizio da un certo fornitore, celando la reale identità del fornitore effettivo, sussiste senza alcun dubbio un fumus di fraudolenza: è verosimile che l’identità del fornitore non sia stata rivelata per ragioni censurabili, ed è probabile (anche se non certo) che esse riguardino il corretto adempimento dei debiti tributari. Non necessariamente, però, tale fumus è indice di non inerenza. Anzi, non sembra esservi alcun indizio in tale direzione: l’ipotesi più semplice e immediata è che l’interposizione sia dovuta al fatto che l’iva non è stata pagata realmente (oppure è stata pagata realmente ma è stata successivamente retrocessa), o comunque non verrà versata, ed il fornitore effettivo ha deciso di non apparire per evitare di vedersi imputate le violazioni commesse (tipicamente: consegue il ricavo ma evade il relativo tributo, viola le disposizioni in materia di iva, atteso che non emette fattura, non la registra, non effettua la rivalsa e non versa l’imposta). In queste ipotesi, secondo quanto si è detto sopra, la detrazione iva andrebbe esclusa, non certo per difetto di inerenza, ma – molto più banalmente – o perché l’iva non è stata corrisposta (se non pagata o retrocessa) o perché, comunque, documentata in fatture soggettivamente mendaci. Nell’ambito delle imposte sui redditi, invece, il fatto che l’operazione sia (consapevolmente o meno) fraudolenta, nulla dice circa il fatto che essa sia posta in essere per finalità extra imprenditoriali o professionali.
Queste argomentazioni sono solide per chi non acceda a una considerazione “etico-giuridica” del concetto di inerenza, che escluda la rilevanza di tutti i costi sostenuti per ragioni professionali e imprenditoriali ma di contenuto o modalità non approvate.
Vediamo, quindi, di formulare qualche provvisoria conclusione.
A nostro modestissimo avviso i concetti di frode (così come descritte), inesistenza ed inerenza devono considerarsi, se non assolutamente estranei, del tutto autonomi tra di loro. Se un’operazione è oggettivamente inesistente, ad esempio, una valutazione di inerenza non trova alcuna valida ragion d’essere, dal momento che non ha alcun senso indagare sull’inerenza di un’operazione che è inesistente in rerum natura.
Caso diverso è quello dell’operazione soggettivamente inesistente. In effetti, tale tipologia di operazione, proprio perché, pur essendo intercorsa tra soggetti diversi da quelli indicati, esiste oggettivamente, è suscettibile di una valutazione di inerenza. Si è già sottolineato, malgrado il contrario avviso della Corte di cassazione, che l’inesistenza soggettiva dell’operazione non pare – ex se – indiziaria della mancanza di inerenza, salvo il possibile rilievo di profili di meritevolezza della deduzione. La detrazione iva, invece, pare preclusa per ragioni formali, mentre la deduzione del costo appare potenzialmente ammissibile.
Sul piano dinamico, qualora l’Ufficio finanziario contesti l’esistenza dell’operazione, sia dal punto di vista oggettivo che da quello soggettivo, il contribuente può assolvere il proprio onere probatorio in uno dei modi seguenti: da un lato, la dimostrazione dell’esistenza dell’operazione sotto entrambi i profili contestati (ed in quel caso il problema si risolve ab radice), dall’altro la dimostrazione della mera esistenza dal punto di vista oggettivo. In tale ultimo caso, si può sicuramente valorizzare la giurisprudenza appena citata, secondo cui il contribuente, in caso di contestazione argomentata dell’Ufficio, deve provare l’effettivo sostenimento del costo e l’effettiva corresponsione dell’I.V.A., nonché l’inerenza dell’operazione all’attività d’impresa.
Tutto ciò, naturalmente, salve ed impregiudicate le norme specifiche sull’indeducibilità e/o indetraibilità di alcuni costi (ad esempio i “costi da reato”), per i quali i concetti di inesistenza ed inerenza sono addirittura ultronei, essendo la deduzione e/o la detrazione escluse “a monte”.